Nino non conosceva il tempo. Non lo sentiva passare, non lo misurava. 

Per lui c'era solo il tempo della semina, o della raccolta delle castagne, del freddo o del fiorire dei campi, del sole che brucia la pelle, della neve. 

E poi c'era il tempo, breve, delle cose che accadono, e quello, lontano, delle già avvenute.

Delle future non si curava, se non nella misura in cui sapeva che sarebbero dovute accadere per forza.

Tutto il resto, lo scorrere delle ore, dei giorni, gli scivolava addosso inavvertito, impercettibile. Ignoto.

Quando lo aveva conosciuto, una ventina d’anni prima, Giuseppe Gattullo era poco più di un ragazzo in cerca di un futuro, che ancora non sapeva immaginare.

Il 20 luglio del 1969 l’afa l’aveva fatta da padrona, e a sera don Nino era seduto sull’uscio di casa, alla periferia nord della città, a cercare refrigerio nella leggera brezza che saliva dal mare.

Non era particolarmente anziano, ma non aveva avuto una vita facile, e agli occhi del giovane sembrava più vecchio della sua età. Teneva le mani in grembo, e aveva l’aria di non condividere l’entusiasmo con cui l’altro, ancora eccitato per le immagini rubate al televisore del bar, gli aveva comunicato che gli astronauti americani erano sbarcati sulla Luna.

Dapprima lo aveva fissato incredulo, e poi, atteggiando il viso all'offesa: «mi dispiaci i tia! Daveru cridi chi rrivaru supra a Luna? E voi mi nci cridu pur'eu!»[1] Si era stupito.

Quindi aveva restituito la propria attenzione alle mani, e a quelle dita nodose, che avevano attraversato i tempi della vita che si portava sulle spalle. 



[1] Mi stupisco di te! Davvero credi che sono arrivati sulla Luna? E pretendi che ci creda anche io!