Franco Musolino

Già Capo del Dipartimento dei Vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della protezione civile presso il Ministero dell’Interno, Prefetto di Napoli, Genova, Reggio Calabria, Cosenza e Crotone.

Pasquale Romeo 

Docente di Psichiatria Università Dante Alighieri Reggio Calabria. Perfezionato in criminologia. Responsabile di psichiatria e psichiatria forense gruppo di ricerca in scienze medico-legali università di Siena.

 

Gli autori, un uomo delle istituzioni ed uno psichiatra, in una intervista a due voci tentano di capire in cosa può consistere la ‘ndrangheta da un punto di vista inconsueto ed originale. Un libro intervista, che non vuole esplorare l’organizzazione criminale nelle sue manifestazioni, quanto individuare cosa essa sottende, e come mai la ’ndrangheta si organizza proprio in un contesto culturale come quello calabrese.

Il libro tenta un’analisi dei fenomeni sociali connessi alla ‘ndrangheta in modo semplice ed immediato, partendo da una tesi di fondo: tutto è ‘ndrangheta e niente è ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta riguarda tutti noi ed il nostro modo di vivere, o è invece un problema solo istituzionale? Compito degli autori è di andare oltre il silenzio dei nostri modi quotidiani e di ciò che solitamente non riusciamo ad esprimere. La ‘ndrangheta è parte di alcuni aspetti del modo di vivere calabrese o è una entità autonoma? Se fosse vera la prima tesi, che la ‘ndrangheta risieda in taluni aspetti culturali propri della società calabrese, allora è qualcosa che richiede una revisione profonda del vivere. Un lavoro che sicuramente non si può dare in appalto…

 

 

Calabria, fine anni Sessanta.

La vita di un piccolo paese dell’Aspromonte, Villalba, viene sconvolta dalla notizia della morte di Paolo Grifo, il giovane erede di una delle famiglie che contano nella ‘ndrangheta locale. Lo hanno trovato riverso tra le felci, in una radura sulla montagna, ucciso con un colpo di pistola alle spalle.

Faida tra famiglie mafiose? Delitto passionale?

Il nuovo comandante della Stazione dei carabinieri, il maresciallo Giuseppe Gattullo, non ha ancora avviato le proprie indagini, che il paese è scosso da un secondo misterioso fatto. Durante la notte, qualcuno compone su un lenzuolo alcuni macabri oggetti davanti alla saracinesca dell’unico emporio. Un messaggio? Un avvertimento? Una minaccia? E a chi? Tutti in paese si aspettano che da un momento all’altro scorra il sangue della vendetta dei Grifo, e il maresciallo Gattullo è costretto a condurre le difficili ricerche in un ambiente che non ama certo la legge dello Stato, perché ripone una cieca fiducia nella giustizia che tradizionalmente impongono gli “uomini d’onore”. Infatti, parallelamente all’attività investigativa del maresciallo e del Comando provinciale dell’Arma, si scatena una seconda e più spietata caccia all’assassino. Quale giustizia arriverà per prima? Quella della Legge che Gattullo si ostina a difendere, aiutato da un personaggio inconsueto, la bellissima e misteriosa magàra del paese, o quella inesorabile delle “famiglie”?

 

 



Calabria, anni cinquanta.

Ines ha ormai perduto le speranze di rivedere il marito, dichiarato disperso in Jugoslavia durante la guerra. Gestisce la "Stazione della posta”, unico bar e piccola locanda di Villalba, modesto paese dell'Aspromonte. 

Sul finire di un agosto, il rassegnato corso della vita paesana si anima per l'arrivo del furgone dell'Istituto Luce: ci sarebbe stato il cinema, quella sera, ed una insolita voglia di vivere si impossessa della gente. Dopo la proiezione di alcuni documentari della “Settimana INCOM” e di un film strappalacrime, il cognato di Ines, don Ludovico Salemi, offre una cena agli operatori dell'Istituto. Quella notte qualcuno forza il furgone, ma non porta via nulla, e la sera seguente è possibile replicare lo spettacolo: l'ultimo dei due operatori, che il giorno dopo verranno ritrovati uccisi qualche chilometro fuori dal centro abitato, non lontano da un mulino di don Ludovico.

Nella primavera successiva, il borgo viene spazzato via da un'alluvione che fa molte vittime e risparmia solo una piccola frazione a monte del paese.

Vent'anni dopo, nel centro ricostruito, il maresciallo Gattullo, comandante della locale Stazione dell’Arma, si ritrova a ricostruire le ultime vicende della vecchia Villalba, dalla drammatica scomparsa dell’intera famiglia Salemi, alla causa dell’uccisione dei due operatori dell’Istituto Luce, che si intreccia con le vicende della guerra partigiana. Lo aiutano la magàra del paese, una donna tanto bella quanto castigata dal destino, ed una giovane venuta dal nord sulle tracce del proprio passato.

Insieme ripercorreranno il fascino, a volte tribale, di quella terra intrisa del valore del “rispetto” e faranno luce sui misteri degli ultimi giorni di Villalba e del mulino di don Ludovico, tra i fantasmi non sempre benevoli del passato e l’emozione di leggersi dentro.

 

 

Reggio Calabria 1970

Per la prima, e finora ultima, volta nella storia dell'Italia repubblicana l'ordine pubblico viene, duramente, ristabilito con l'impiego dell'esercito e di mezzi corazzati. 

Sullo sfondo della città soffocata dai gas lacrimogeni delle forze di polizia ed incendiata dalle molotov dei dimostranti, il maresciallo Gattullo è chiamato a fare scelte mai maturate prima, e a fare chiarezza sulle attività di una Base Nato che sovrasta il paese di Villalba.

Gli avvenimenti storici di quell'estate rovente si intrecciano con le vicende personali dei protagonisti, li condizionano e ne restano, a loro volta, influenzati.

E' la vita, che non concede pause alle scelte.

 


 

 

 

Due misteriosi borsoni da viaggio, abbandonati ai lati del portone d’ingresso  della Banca d'Italia di Genova, mettono in allarme le forze dell’ordine. 

Un attentato fallito?

Il gesto dimostrativo di una formazione terroristica?

Un’intimidazione mafiosa?

Indaga il dirigente della Digos, il vicequestore Occhipinti, calabrese spedito in Liguria, che se la dovrà vedere con giovani dei centri sociali alla ricerca di una rivoluzione 2.0, ndranghetisti di rango, e una intrigante giornalista d’assalto.

 

Cosa mai possono avere in comune un paio di scarpe da donna agganciate per i tacchi a una ringhiera, con uno psicologo e un capitano dei Carabinieri? 

Difficile immaginarlo. Ma la vita è imprevedibile, e proprio le scarpe legano i due uomini con un sottile filo, fatto di riluttanti omissioni, e di sorprendenti scoperte del variopinto universo femminile, dove non c’è nulla di scontato, e tutto è possibile. 

E se è lo psicologo a scorgere le scarpe nella loro singolare esposizione, il capitano se le ritrova tra gli effetti personali della loro proprietaria, quando ne viene scoperto il corpo senza vita in un appartamentino in centro città, sul principio  di un’estate bollente in riva allo Stretto.

Mentre si sviluppano le indagini, condotte da un maresciallo dell’Arma, l’ufficiale si gioca la carriera, e lo psicologo impara sul genere femminile più di quanto non gli abbia insegnato la professione.

Loro, le donne della storia, semplicemente esistono.

 

 

 

Nino non conosceva il tempo. Non lo sentiva passare, non lo misurava. 

Per lui c'era solo il tempo della semina, o della raccolta delle castagne, del freddo o del fiorire dei campi, del sole che brucia la pelle, della neve. 

E poi c'era il tempo, breve, delle cose che accadono, e quello, lontano, delle già avvenute.

Delle future non si curava, se non nella misura in cui sapeva che sarebbero dovute accadere per forza.

Tutto il resto, lo scorrere delle ore, dei giorni, gli scivolava addosso inavvertito, impercettibile. Ignoto.

Quando lo aveva conosciuto, una ventina d’anni prima, Giuseppe Gattullo era poco più di un ragazzo in cerca di un futuro, che ancora non sapeva immaginare.

Il 20 luglio del 1969 l’afa l’aveva fatta da padrona, e a sera don Nino era seduto sull’uscio di casa, alla periferia nord della città, a cercare refrigerio nella leggera brezza che saliva dal mare.

Non era particolarmente anziano, ma non aveva avuto una vita facile, e agli occhi del giovane sembrava più vecchio della sua età. Teneva le mani in grembo, e aveva l’aria di non condividere l’entusiasmo con cui l’altro, ancora eccitato per le immagini rubate al televisore del bar, gli aveva comunicato che gli astronauti americani erano sbarcati sulla Luna.

Dapprima lo aveva fissato incredulo, e poi, atteggiando il viso all'offesa: «mi dispiaci i tia! Daveru cridi chi rrivaru supra a Luna? E voi mi nci cridu pur'eu!»[1] Si era stupito.

Quindi aveva restituito la propria attenzione alle mani, e a quelle dita nodose, che avevano attraversato i tempi della vita che si portava sulle spalle. 



[1] Mi stupisco di te! Davvero credi che sono arrivati sulla Luna? E pretendi che ci creda anche io!


 

Prologo

 

 

L’indovinava libera d’altro, sotto quella specie di caftano bianco, stampato a fiori blu.

Era leggerissimo, e le cadeva giù dalle spalle morbido, ondeggiante alla brezza serale di fine estate, che saliva dal mare.

"È una cena tra amici", gli aveva detto Marco, invitandolo, "ci sarà pure Chiara, di passaggio in città con una sua collega." Ma lei, evidentemente, non sapeva già della sua presenza, perché lo aveva salutato con sorpresa, gradita, si accorse subito lui, sentendola mormorare il suo nome quasi incredula.

Si costrinse a un abbraccio formale, di due amici che non si incontrano da tempo, ma gli costò. La chimica d’un giorno rianimò emozioni che credeva smarrite, mentre le sfiorava la guancia in un accenno di bacio.

Qualcosa negli occhi della donna gli confermò che tutto quel tempo era passato invano, forse, anche per lei.

L’indovinava sciolta, sotto quel sottile cotone che non riusciva a mortificarne la femminilità delicata, disarmante. Il suo portamento severo, distaccato, piuttosto che smorzarlo, ne esaltava il fascino quando si lasciava andare a un sorriso, che ti toccava dentro.

L’intuiva indifesa, sotto quei fiori blu, ma quel pensiero non gli accendeva i sensi. Era di un abbraccio più intimo, di un abbandono, che avvertiva il desiderio. Avesse potuto, l’avrebbe condotta in spiaggia, a contare le stelle.

Sei il solito stupido! Si rimproverò. Ci sono momenti in cui prenderla troppo alla lontana può risultare offensivo, oltreché sciocco!

Ma non era d’altro che avvertiva l’urgenza. Quella sera, almeno.

Cercò di convincersi che lei non gli avesse letto nel pensiero, quando gli domandò, con un sorriso appena velato: «Da quanto tempo non ci vediamo? Sarà un paio d'anni?» Sembrò sorprendersi.

«Forse non tanto», rispose lui, «ma è certamente troppo tempo!»

Sedettero, infine.

Erano capitati accanto, tra tutte quelle persone, come se ancora una volta il caso avesse voluto divertirsi.

Un chiacchiericcio confuso si incrociava sopra le portate che imbandivano la tavola.

Lei partecipava alle conversazioni, ora sorridendo a una battuta, ora assentendo ad affermazioni più serie. Curava appena il cibo, con quel suo consueto modo di fare distaccato.

Lui non si sorprese, quando gli pose la mano sull’avambraccio per richiamarne l’attenzione, in un moto forse abituale, ma che sapeva di intimo.

Le sorrise, e accostò appena il capo per ascoltare meglio ciò che aveva da dirgli.

«Ricordi l'ultima volta che ci siamo incontrati?»

La ricordava eccome! Ci aveva pensato tante volte, e sempre con il cocente rammarico di non aver capito o, perlomeno, di aver peccato di tempestività.

Si erano trovati per caso a Roma, e avevano cenato insieme. Lei, che si dichiarava praticamente astemia, a un certo punto aveva accostato alle labbra il calice del vino: "giusto per augurio!" Aveva tenuto a precisare.

E poi lo aveva rifatto altre volte: sempre piccoli sorsi, molto misurati.

Di lì a poco, la notte li aveva accolti amichevole, tra il picchiettare dei tacchi di lei sui sanpietrini, e le loro ombre che si allungavano sotto i fari delle rare automobili di passaggio.

Era una tiepida sera di fine estate, e spirava il classico ponentino romano, che alleggeriva i pensieri e stemperava l’umidità della notte.

Lei indossava un tubino smanicato, che lasciava le braccia libere di esibirsi, indifese, e portava appesa a cavallo della borsetta una leggera giacchina di cotone.

Stavano percorrendo un viale dove i lampioni che avrebbero dovuto illuminare i marciapiedi avevano perso da tempo la battaglia contro le foglie, ancora folte, dei platani che punteggiavano la strada.

Biancheggiavano nell’ombra, quelle braccia; erano lì, a un respiro di distanza, invitanti, irresistibili.

E lui aveva un solo pensiero in testa: prenderla a braccetto, carezzare quel candore che per tutta la serata non gli era riuscito di ignorare.

Sorrise amaramente, rammentando come un distorto senso di rispetto lo avesse spinto a un accosto indiretto: «ho un gran desiderio di prenderti sottobraccio», gli era sfuggito. «Se le tue braccia non fossero scoperte lo avrei già fatto!»

«E che problema c'è?» Aveva rilanciato immediatamente lei, indossando la giacchina.

Sì! Si era sentito stupido, quando poi, per assecondare il suo desiderio, lei gli aveva porto il braccio, coperto.

Un’opportunità sciupata? Se l'era chiesto, dopo aver percepita l’arrendevolezza con la quale gli si appoggiava al fianco, non curandosi di evitare contatti più prolungati.

Imbecille! Imbecille!

Avresti solo dovuto abbracciarla, lì, sotto i platani, all'ombra di quelle foglie, senza parole inutili.

«E come potrei non ricordare!» Rispose, tornando in sé, allo sguardo interrogativo di lei. «Rammento tutto, purtroppo!» Soggiunse, con un sorriso amaro.

Avrebbe potuto articolare una risposta molto meno sintetica, ma non era più tempo di ragionamenti raffinati.

E il tono di quelle poche parole aveva detto molto più di quanto avrebbe potuto spiegare un’espressione più complessa.

 

E, infatti, lei sorrise.